Il tuo carrello è vuoto.
Bambini e bambine in tutela
Le competenze dell’educatore nel rapporto con le famiglie d’origine
da Bambini, n. 4, aprile 2022, pp. 20-24
Autrice: Paola Bastianoni (Professore associato in Psicologia dinamica, Direttrice del Master “Tutela, diritti e protezione dei minori”, Università degli Studi di Ferrara)
Comunità di accoglienza e famiglie fragili
La legge 184/1983 sull’affidamento e l’adozione, con la successiva revisione del 2001 (L. 149/01) ha sancito il diritto innegabile alla famiglia per ogni bambino/a. Quale famiglia? La legge, già quarant’anni fa declinava al plurale il contesto che avrebbe dovuto garantire una famiglia a chi momentaneamente era privo della propria: una famiglia possibilmente con figli, un single, una comunità di tipo familiare. Non è la struttura che determina il contesto familiare ma la qualità della comunicazione, delle funzioni genitoriali esercitate, dell’affettività positiva percepita da chi viene accolto. Nei decenni l’affidamento familiare ha subito delle rivisitazioni che, in parte, ne hanno modificato la natura transitoria della sua funzione. Gli affido sine die hanno sollevato il tema della mancata transitorietà di moltissimi affidamenti familiari e della necessità di dare un riconoscimento legislativo alla continuità affettiva tra famiglia affidataria e quei figli vissuti per anni nello stesso contesto familiare che non sarebbero rientrati nelle proprie famiglie d’origine (L. 173/15).
E delle comunità familiari cosa è stato detto?
A volte è stato detto troppo e sempre in termini scandalistici, a volte è stato detto troppo poco, tacendo sulla funzione fondamentale che svolgono in quel compito complesso di relazione con le famiglie d’origine a cui purtroppo le famiglie affidatarie, lasciate sole da una rete di servizi sovente lacera e insufficiente, si sono spesso sottratte. Gli educatori delle comunità per minori, soprattutto quando i bambini sono molto piccoli, hanno quotidianamente il compito di pensare alle famiglie dalle quali i piccoli provengono. Le famiglie d’origine sono sempre presenti nello spazio dinamico della comunità. Sono presenti effettivamente quando i figli hanno con loro contatti diretti sia telefonici che nei rientri periodici a casa, lo sono indirettamente, anche quando non sono presenti fisicamente, nei vissuti e nelle aspettative dei propri figli, negli agiti proiettivi di questi ultimi rivolti agli educatori, sostituti vicarianti temporanei. Sono presenti nella progettazione concertata con i servizi sociali che ne hanno la presa in carico e nella progettazione rivolta ai loro figli che, necessariamente, prevede gli obiettivi di sostenere ogni bambino/ragazzo nella comprensione di ciò che è successo nella sua famiglia per giustificare la sua espulsione temporanea e/o definitiva e il suo ingresso in comunità; di aiutarlo a ridefinire i significati di ciò che è avvenuto, le attribuzioni di responsabilità e di pervenire, laddove sia possibile, al perdono, per pacificarsi, una volta ottenuta la giusta riparazione, con il proprio mondo interno e, se perseguibile, con i genitori reali. Di seguito evidenzieremo alcuni aspetti fondamentali nelle modalità della relazione diretta tra comunità e famiglie. La complessità della comunicazione e della relazione con le famiglie d’origine richiede, infatti, agli educatori di comunità, come del resto agli operatori sociali che si occupano della presa in carico e del trattamento delle famiglie maltrattanti una professionalità competente e attenta sia a una corretta analisi e comprensione delle dinamiche familiari, della genitorialità e delle possibilità di intervenire al suo sostegno, ma anche alla gestione corretta delle proprie emozioni. Gli operatori che si occupano di genitori maltrattanti e di figli vittime di maltrattamento, entrano inevitabilmente a contatto con sentimenti particolarmente impegnativi, quali l’impotenza, il dolore, la confusione, la rabbia, la paura, la colpa, la vergogna, che richiedono una grande capacità personale nella gestione dell’ambivalenza che spesso questa complessità emotiva comporta. Iniziamo a focalizzare l’attenzione sulla prima competenza necessaria al professionista che dialoga con un familiare (o con più) i cui figli sono stati affidati alla comunità nella quale il professionista opera.
Quali sono le rappresentazioni e le fantasie che quel genitore avrà nei suoi confronti? Come imposterà la conversazione? Su quali aspetti non vorrà soffermarsi? Quali tentativi farà per dimostrarsi competente? Metterà in atto una sfida all’educatore per dimostrare che anche il professionista ha le sue difficoltà e i suoi punti critici? Come potrà l’educatore mettere in atto un ascolto attento e attivo senza incorrere in facili collusioni e in pericolose alleanze (ad esempio, “Eh sì, suo figlio è proprio aggressivo, anche noi non riusciamo a dargli nessuna regola! Capiamo che ci può essere scappata la sberla! E anche più di una!” risposta data a un padre il cui figlio è stato inserito in comunità sulla base della segnalazione del pronto soccorso per lesioni fisiche dovute a percosse)? Come potrà restituire al genitore ciò che non va nelle sue modalità di rapportarsi al figlio/a senza squalificarlo ma non colludendo con ciò che non può né essere minimizzato né considerato adeguato?
Queste e altre domande suggeriscono all’educatore un proprio monitoraggio sull’interazione alla quale si appresta: l’ascolto attivo, ma non collusivo, con un genitore/familiare dei ragazzi in comunità.
L’ascolto
L’ascolto è la prima competenza richiesta all’educatore di comunità, come agli altri professionisti che si occupano di relazioni d’aiuto; imparare ad ascoltare (che è del tutto diverso dal sentire e dal ricordare ciò che un altro ci ha detto) richiede una formazione specifica e supportata in itinere attraverso setting specifici di formazione e di supervisione che possano consentire ai singoli operatori e alla intera équipe di mantenere equilibrio, correttezza, lucidità, comprensione e capacità di valutazione. L’ascolto può essere definito come l’esito di una competenza complessa che include le seguenti capacità: recettività, manifestazione di disponibilità ad accettare e a fare spazio all’alterità della comunicazione dell’altro; riconoscimento dei sentimenti propri e altrui; espressione di vicinanza emotiva, in grado di mettere a suo agio l’interlocutore senza incorrere nella collusione; capacità empatica di condividere e comprendere prima di giudicare; impegno a riconoscere i non detti nella comunicazione e le tracce che possono consentire di ricostruire i significati personali e familiari di ciò che è avvenuto e avviene in quella famiglia, soprattutto per ciò che concerne gli agiti maltrattanti e le motivazioni che possono favorire il cambiamento. L’esperienza consolidata da decenni di supervisione e formazione nelle comunità per minori ha consentito di rafforzare con l’evidenza la convinzione che non sia sufficiente una preparazione professionale di tipo cognitivo ma bisogna investire soprattutto in una formazione costante di tipo emozionale.
Lavorare con le emozioni
La capacità di lavorare con le emozioni, facilitando anche i meccanismi di cooperazione intergruppo e interprofessionale, è il secondo aspetto di rilievo che merita una breve riflessione.
La componente emotiva può essere in parte gestita autonomamente dall’educatore e in parte supportata dal supervisore/formatore negli appositi setting periodici di supervisione e di formazione ai quali ogni comunità non può rinunciare.
L’educatore preparato e accompagnato al lavoro personale sulle emozioni deve essere in grado di:
• riconoscere le emozioni provate;
• modulare le stesse in modo da non essere eccessivamente coinvolto e identificato, né distante e indifferente, ma piuttosto cercando una “giusta distanza” nei confronti di ciò che ha determinato la risposta emotiva (il racconto dell’altro);
• dialogare con il familiare distinguendo ciò che concerne la riattivazione dei suoi personali vissuti emotivi connessi a tema/vicende/narrazioni trattate da ciò che invece ha a che fare con l’hic et nunc dell’attualità (la comunicazione in atto da parte del genitore del bambino in comunità).
• sostenere il dialogo con l’altro ascoltando anche le proprie emozioni senza agirle direttamente nella comunicazione non verbale così come in quella verbale laddove queste indirizzino al rifiuto palese dell’altro, o alla piena disapprovazione. Ad esempio, il genitore, per giustificarsi del ritardo, sta iniziando a raccontare all’educatore, davanti al figlio di 5 anni, della difficoltà a chiudere prima il pranzo con l’ultima sua conquista facendo pesanti apprezzamenti sulla donna. In questo caso l’educatore deve essere in grado di intervenire prontamente con un atteggiamento risoluto, ma non offensivo, dicendo al genitore che quello proposto non è né un argomento interessante né idoneo alla comunicazione in atto tra loro e guardando il figlio può spostare il focus conversazionale sui contenuti importanti in quel contesto: “Tornando a noi signor Bianchi, oggi Giuseppe è tornato da scuola con una nota di merito per l’esercitazione scritta in storia”. O, ancora, una madre la cui figlia è stata allontanata da casa per aver sporto denuncia contro il convivente della madre accusandolo di molestie sessuali, ha sostenuto la figlia nella denuncia, si è separata dal convivente ma parlando di lei con un’educatrice della comunità l’appella “quella buona a nulla”. In questo caso l’educatrice sarà in grado di resistere alla tentazione di rispondere a tono alla madre ma le dirà, cercando di mantenere una tonalità di voce che non tradisca la rabbia e l’irritazione provata: “Capisco signora Rossi che sia stato molto difficile per lei stare vicina a sua figlia in questo periodo così complesso, dovendo rinunciare anche a una vita che le piaceva, però sua figlia ha sofferto moltissimo e ingiustamente ed è stata molto coraggiosa a parlare con lei e a ribellarsi a ciò che le stava succedendo. Adesso ha bisogno ancora di lei e del suo aiuto. Noi siamo qui anche per lei signora, perché lei e sua figlia non vi perdiate dopo tutto ciò che avete vissuto”.
Mantenere un’alleanza di lavoro con le famiglie garantendo l’alleanza emotiva con i figli
Il vissuto dei bambini e delle bambine inseriti in comunità a causa dei comportamenti maltrattanti e/o abusanti dei loro familiari è irrimediabilmente segnato dalla diffidenza verso l’altro, originata dalla manipolazione comunicativa, dalle menzogne, dalla richiesta di segreto e dai tradimenti subiti dai propri adulti significativi.
Il bambino e l’adolescente che vive in comunità ha necessità di confrontarsi con modalità in discontinuità con le precedenti perché possa progressivamente accedere a un cambiamento profondo dei modelli interiorizzati di sé, degli altri e del mondo. Si tratta di bambini e giovani molto sensibili ai temi della giustizia e dell’autenticità proprio perché sono vittime di ingiustizie, tradimenti e manipolazioni.
Hanno sperimentato alleanze “contro”, richieste improprie di adultizzazione e la loro personalità si è strutturata sulla base di regole e codici comunicativi confusivi e confondenti.
L’educatore di comunità che si impegna assieme agli altri operatori, per ciò che gli compete, di contribuire a riportare ordine nel disordine relazionale, di ruoli, di confini, di significati tra genitori e figli, ha il dovere di mantenere sempre con i familiari e con bambini/e, nel rispetto dell’età e delle abilità/competenze di ciascuno/a, una comunicazione trasparente, non equivoca che non dia spazio ad alleanze “contro” né alla continuità di comportamenti e condotte manipolatorie, confusive o francamente mendaci.
In questa direzione può essere letto l’esempio di Romina, 4 anni: la bambina torna la domenica sera in comunità accompagnata dal padre, dopo aver trascorso il fine settimana con lo stesso. La madre vede raramente la bambina avendo deciso, quando lei aveva 2 anni di trasferirsi all’estero con un nuovo partner e provocando nella piccola uno profondo shock. Il padre, impreparato all’evento, era caduto in depressione e la bambina era stata affidata dapprima a una famiglia e poi alla comunità. Romina è visibilmente eccitata e comunica all’educatore, in maniera concitata, che non potrà più andare a danza perché dalla prossima settimana il padre, che ha trovato una nuova fidanzata, la riprenderà a vivere con sé nel paese dove vive ora lontano 60 chilometri dalla comunità e dalla scuola di danza. Il padre, conferma, annuendo con il capo. È visibilmente in imbarazzo. China il capo e prende la figlia in braccio dicendo: “Sì, dalla prossima settimana staremo di nuovo assieme!”. Cerca di allontanare la bambina ma lei lo stringe ancora più forte a sé. L’educatore intuisce che il padre è in seria difficoltà a lasciare la bambina e le ha detto una bugia per evitare il suo pianto. L’educatore sa che un’affermazione contraria e veritiera (non tornerai casa con tuo padre tra 5 giorni perché è necessario un decreto del tribunale che impiega un tempo maggiore!) otterrebbe in risposta il pianto disperato della piccola, che il padre ha voluto maldestramente evitare, e un contradditorio verbale con il padre che non sarebbe di aiuto a nessuno. Decide allora, sulla base del rispetto dei criteri di alleanza emotiva con la bambina, alleanza di lavoro con il genitore e autenticità relazionale, di intervenire in un altro modo. Si rivolge al padre dicendo: “Sono contento che si senta bene e voglia riprendere a vivere con Romina tutti i giorni e non solo nel week end. Anche Romina è molto contenta e si vede! (sorride alla piccola). I tempi però signor Rossi, lo sa anche lei, purtroppo sono un pochino più lunghi di qualche giorno, mi sbaglio? (rivolgendosi al padre)”.
Il padre conferma abbassando lo sguardo sulla bambina. L’educatore aggiunge, guardando entrambi: “Sarebbe proprio bello che in soli 5 giorni poteste tornare a vivere assieme però bisogna avere un po’ di pazienza e i giorni passeranno in fretta!”. Il padre annuisce nuovamente.
Infine, l’educatore, guardando il padre e dando una carezza alla piccola, conclude: “Il saggio di danza sarà bellissimo e lei signor Rossi sarà in prima fila a fotografare sua figlia vero? La fotografia più bella sarà incorniciata e appesa in casa così appena Romina tornerà la potrà ammirare tutti i giorni mentre ora lo farà solo il sabato e la domenica!”. Il padre annuisce ancora e sorride all’educatore e alla figlia. Ora Romina è più pronta a separarsi da lui e piano piano lo accompagna alla porta.
Lavorare in rete
La capacità di lavorare in rete è un terzo aspetto importante nel lavoro rivolto alle famiglie e ai loro figli.
È opinione comune tra tutti gli educatori di comunità quanto sia necessario ma allo stesso tempo difficile operare in concerto con tutti gli operatori e le istituzioni interessate al caso (servizi sociali, magistratura minorile, magistratura penale ecc.) e, soprattutto per la gravosità degli impegni professionali degli operatori delle istituzioni sopraelencate, risulta molto impegnativo per l’educatore di comunità e dispendioso, in termini di motivazione, tempo ed energie, sollecitare e ottenere incontri periodici di rete sui casi presi in carico.
Il lavoro di riavvicinamento tra le famiglie maltrattanti e i loro figli necessita però di una squadra di operatori che si senta tale e agisca come tale concertando e confrontandosi con periodicità. Il lavoro di squadra in équipe multidisciplinare è la risorsa principale per non rimanere bloccati dall’incertezza o paralizzati dalla paura di sbagliare e per sviluppare la capacità di assumere dei rischi calcolati e delle decisioni comuni che nel tempo andranno verificate. Inoltre viene favorito anche un interscambio proficuo relativo alle proprie esperienze emotive e personali, che possono essere un valido supporto professionale nella trattazione dei casi, secondo un’ottica interdisciplinare.
Bibliografia
Bastianoni P. (a cura di), Tutela, diritti e protezione dei minori. Una lettura psico-socio-giuridica, Edizioni Junior-Bambini srl, Reggio Emilia, 2021.
Bastianoni P., Le comunità per minori 18, in “La Rivista del lavoro sociale”, n. 6, 2020, pp. 20-26.
Fruggeri L., Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psico-sociali, Roma, Carocci, 1997.
Pavani A., Due famiglie per crescere. Riflessioni e proposte per favorire l’affidamento, Roma, Carocci, 2020.
Commenta