Accogliere nella complessità

Accogliere nella complessità

Da Bambini, n. 1, gennaio 2019, pp. 16-21

 

Autrice: Tiziana Chiappelli (Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia, Università degli Studi di Firenze)

 

Il percorso formativo “Culture dell’accoglienza strategie dell’incontro: stili relazionali e comunicativi nel rapporto con le famiglie”, realizzato dall’associazione Progetto Arcobaleno di Firenze1, ha avuto come oggetto del progetto le modalità per creare e sostenere un clima relazionale positivo e costruttivo tra i servizi alla prima infanzia e le famiglie delle bambine e dei bambini del Comune di Firenze, tenendo conto della presenza di ambienti famigliari e sociali diversificati e con stili di vita, attitudini, preferenze, aspettative, desideri e timori differenti. Attraverso una riflessione comune e un approccio metodologico a partire dalle esperienze quotidiane degli insegnanti e degli educatori dei nidi sono stati affrontati i temi relativi alla comunicazione interpersonale e agli stili relazionali in ambiente multiculturale privilegiando l’adozione di metodologie inclusive e partecipative informate degli apporti degli studi interculturali.

Una particolare attenzione è stata posta all’approccio narrativo e biografico per stimolare l’autosservazione e l’autoriflessività del personale coinvolto in relazione al proprio agire pedagogico nel rapporto tra i servizi all’infanzia e i genitori. Filo conduttore sono stati l’utilizzo di una pluralità di linguaggi e di codici e la stimolazione del lavoro di gruppo per la costruzione di un sapere comune, nel quadro di riferimento del pensiero divergente, dell’ascolto attivo, della gestione creativa dei conflitti.

 

La costruzione di nuovi patti educativi

La società è cambiata e con essa i bambini e le bambine che frequentano i servizi educativi. Firenze, come il resto dell’Italia e dell’Europa, riflette nella sua composizione sociale le fratture e le discontinuità che investono lo scenario attuale, affrontando i problemi e le sfide emergenti sollevate dai processi di globalizzazione in atto, ricchi di nuove potenzialità che occorre imparare a gestire proficuamente.

Come ben descrivono le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, che fotografano la situazione attuale della società in relazione ai processi educativi, “In un tempo molto breve, abbiamo vissuto il passaggio da una società relativamente stabile a una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità. Questo nuovo scenario è ambivalente: per ogni persona, per ogni comunità, per ogni società si moltiplicano sia i rischi sia le opportunità.

Gli ambienti in cui la scuola è immersa sono più ricchi di stimoli culturali, ma anche più contraddittori. […] La scuola è perciò investita da una domanda che comprende, insieme, l’apprendimento e «il saper stare al mondo». E per potere assolvere al meglio alle sue funzioni istituzionali, la scuola è da tempo chiamata a occuparsi anche di altre delicate dimensioni dell’educazione. L’intesa tra adulti non è più scontata e implica la faticosa costruzione di un’interazione tra le famiglie e la scuola, cui tocca, ciascuna con il proprio ruolo, esplicitare e condividere i comuni intenti educativi” (Miur, 2012, p. 7).

Inoltre, l’orizzonte territoriale della scuola si allarga. Ogni specifico territorio possiede legami con le varie aree del mondo e con ciò costituisce un microcosmo che su scala locale riproduce opportunità, interazioni, tensioni, convivenze globali. Anche ogni singola persona, nella sua esperienza quotidiana, deve tener conto di informazioni sempre più numerose ed eterogenee e si confronta con la pluralità delle culture. “Alla scuola spetta il compito di fornire supporti adeguati affinché ogni persona sviluppi un’identità consapevole e aperta. La piena attuazione del riconoscimento e della garanzia della libertà e dell’uguaglianza (articoli 2 e 3 della Costituzione), nel rispetto delle differenze di tutti e dell’identità di ciascuno […]. Una molteplicità di culture e di lingue sono entrate nella scuola. L’intercultura è già oggi il modello che permette a tutti i bambini e ragazzi il riconoscimento reciproco e dell’identità di ciascuno. A centocinquanta anni dall’Unità, l’Italiano è diventata la lingua comune di chi nasce e cresce in Italia al di là della cittadinanza italiana o straniera. La scuola raccoglie con successo una sfida universale, di apertura verso il mondo, di pratica dell’uguaglianza nel riconoscimento delle differenze” (Miur, 2012, pp. 7-8).

 

Il rapporto scuola-famiglia nel mutato scenario sociale

In questo scenario pare fondamentale instaurare, fin dal primo ingresso dei bambini e delle bambine nei servizi educativi, un corretto rapporto tra scuola e famiglia, tra servizio e parenti di riferimento e in particolare i genitori, costruendo assieme relazioni, condivisione e discussione delle pratiche educative proposte, come anche le indicazioni e le linee guida del Consiglio di Europa più volte hanno ribadito. Tale importante compito è da vedersi sia in relazione alla creazione di percorsi di inserimento e di accoglienza dei piccoli nei servizi a loro dedicati, sia per costituire un rapporto proficuo tra adulti rinsaldando la coesione sociale tra famiglie, ente pubblico e territorio nell’ottica di percorsi di cittadinanza.

Per molte famiglie, e in particolare, ad esempio, per le famiglie di origine straniera, il rapporto con i servizi alla prima infanzia è il primo contatto strutturato con i servizi educativi pubblici e in alcuni casi con istituzioni italiane e, quindi, al di là delle necessità di accoglienza e inclusione dei bambini, vi è un’importante funzione degli operatori di questi servizi nel far conoscere i meccanismi, le prassi e le intenzioni pedagogiche in essi attuati, nella consapevolezza di possibili discontinuità tra i modelli di riferimento per la cura e l’educazione dei bambini (per esempio, gestione dei tempi e degli spazi, dei pasti, compresa la costruzione dei menu, le feste, le regole di riferimento ecc.).

Tutto questo pone di fronte agli operatori e agli educatori dei servizi all’infanzia una complessità di visioni pedagogiche e, come conseguenza, la necessità di aprire una riflessione e un confronto sul piano pedagogico con le famiglie e gli adulti di riferimento di tutti i bambini e le bambine che non sia di rinuncia ma di negoziazione e reciproco arricchimento. La costruzione di un servizio pedagogico “per tutte e tutti e per ciascuno” può fondarsi sull’esplicitazione e condivisione dei punti unificanti nelle diverse visioni, in particolare partendo dalla base comune di rendere il servizio educativo un ambiente in cui i bambini e le bambine stanno bene tra loro e con gli adulti, si sentono accolti e trovano spazi espressivi adeguati.

 

Il progetto formativo

Il percorso formativo è stato pensato per il personale dei servizi per la prima infanzia del territorio del Comune di Firenze negli anni 2015-2016 e 2016-2017. La formazione è stata realizzata con gruppi di lavoro composti da diverse figure professionali (educatrici ed esecutrici, e in alcuni casi anche educatori ed esecutori) di servizi a gestione diretta e indiretta per un totale di 22 gruppi aula, ciascuno dei quali composto mediamente da 30 persone. Ogni gruppo aula era composto da persone provenienti da almeno due servizi diversi.

Gli incontri sono stati pensati per promuovere nelle/nei partecipanti una cultura dell’ascolto, della giusta distanza empatica e della riflessività sia dell’utenza sia dell’équipe di lavoro, ma più in particolare sono stati concepiti per sostenere il personale nei rapporti con le famiglie attraverso l’individuazione di strategie e strumenti comunicativi in grado di migliorare l’alleanza educativa nelle relazioni tra nido-famiglia.

Il percorso ha affrontato il tema dell’accoglienza nei servizi educativi in relazione agli adulti (mamme, papà, nonne, nonni ma anche altri possibili tipi di figure di riferimento). Ha dunque attraversato temi relativi alla comunicazione interpersonale e agli stili relazionali in ambiente multiculturale. Una cura specifica è stata dedicata a introdurre e/o potenziare gli strumenti e le strategie relazionali nei confronti delle famiglie dei bambini e delle bambine, affrontando alcuni temi principali della comunicazione interpersonale, interculturale e intergenerazionale attraverso role play, simulazioni, analisi di video e filmati relativi alla comunicazione e alla relazione adulto-adulto e adulto-bambino/a, riflessioni sui differenti punti di vista – anche attraverso l’autosservazione e l’autovalutazione del proprio comportamento – tentando di decostruire giudizi preformati e stereotipi legati al genere, all’ambiente economico e sociale, alla provenienza geografica, alla tradizione culturale e linguistica di riferimento, alle età e agli stili di vita. La riflessione relativa al vissuto personale degli operatori e degli educatori è stata di volta in volta ricondotta a cornici di riferimento teoriche.

Il progetto ha previsto i seguenti obiettivi formativi:

  • favorire la conoscenza delle trasformazioni del contesto sociale e culturale nell’epoca della globalizzazione, tra migrazioni internazionali e nuove famiglie;
  • favorire la lettura dei bisogni delle famiglie e dei bambini attraverso l’implementazione di strategie di ascolto attivo e in ottica interculturale;
  • condividere strategie per la negoziazione di prospettive pedagogiche e visioni differenti della cura dei bambini e delle bambine con famiglie, parenti, adulti di riferimento (come nel caso di bambini in affido, minori non accompagnati ecc.);
  • promuovere nel personale una competenza riflessiva finalizzata a una gestione professionale della relazione con le famiglie;
  • riflettere sul significato e sulle modalità di erogazione del colloquio di ascolto rivolto ai genitori;
  • fornire/condividere strumenti e strategie di comunicazione quotidiana con le famiglie.

 

Dall’esperienza personale alla rielaborazione collaborativa

Per raggiungere gli obiettivi, gli interventi formativi sono stati sia di tipo pratico sia teorico, seguendo un andamento induttivo: passare dalle esperienze personali all’elaborazione collettiva per giungere a nozioni e teorie più ampie per il settore educativo, la comunicazione efficace, l’ascolto attivo e la gestione non violenta e creativa dei conflitti, offrendo chiavi di lettura anche di tipo socio-antropologico e interculturale. Ogni incontro è stato organizzato in modo da dare ampio spazio al coinvolgimento diretto dei partecipanti e ha previsto momenti in cui l’esperienza è stata ricollegata a un quadro di riferimento teorico relativo al tema oggetto di formazione. Le metodologie adottate sono state di tipo attivo e cooperativo/collaborativo in modo da sollecitare anche nell’aula formativa il lavoro di équi­pe e i processi comunicativi e di negoziazione interpersonale dei vissuti professionali personali e dei significati attribuiti al proprio agire pedagogico e comunicativo. Attraverso strumenti e strategie per la rilevazione delle esperienze pregresse, partendo dalla riflessione sulle criticità individuate e specifici episodi affrontati in passato, sono stati analizzati i bisogni formativi espressi.

I gruppi in formazione erano composti da persone che ricoprono ruoli diversi e in possesso di diverso profilo professionale, ciò si è rivelato un valore aggiunto rendendo necessaria la creazione di un linguaggio condiviso e di modalità di collaborazione attiva. Sono dunque state proposte attività e strategie di team building a livello di aula formativa e di capacity building in relazione alle singole persone coinvolte, una didattica non frontale ma operativa e collaborativa (in alcuni casi, sviluppata attraverso attività di cooperative learning).

 

Tanti linguaggi per trovare nuove soluzioni

Il mondo è cambiato, è diventato più complesso: vecchi schemi e antiche certezze sono andati disgregandosi. È mutato persino ciò che sembrava immutabile – si pensi al cambiamento climatico – e le strutture sociali, gli stili di vita, i contesti fisici e relazionali in cui ci muoviamo si sono trasformati. Il nuovo millennio si è aperto all’insegna delle pluralità. Non che prima non vi fossero, ma i massicci movimenti migratori internazionali, così come la trasformazione delle comunicazioni, istantanee e a diffusione mondiale, facilmente accessibili per ciascuno – bastano un cellulare e una connessione internet per ricevere o inviare messaggi, immagini, video a chiunque abbia a sua volta un cellulare e una connessione – ma anche il venir meno di percorsi prestabiliti e ruoli determinati hanno mutato il panorama relazionale in cui ci muoviamo, facendo convivere le differenze contemporaneamente e nei medesimi spazi, reali o virtuali che siano, e obbligando ciascuna e ciascuno di noi a prenderne atto e a confrontarcisi. Il moltiplicarsi delle prospettive, dei punti di vista, dei riferimenti culturali, dei comportamenti individuali e sociali richiede, per chi operi a livello educativo e, quindi, relazionale, che ci si doti di nuovi strumenti di lavoro, necessari per decodificare situazioni e interpretazioni, comportamenti e orientamenti valoriali e così via. Il bagaglio culturale di cui dovremmo disporre è immenso, e certo una delle sfide del futuro sarà quella di acquisire e far acquisire almeno le nozioni di base per capire questo mondo dalle tante sfaccettature e stratificazioni. Ma per far questo, occorre anzitutto lavorare a livello di competenze. Una di queste pare particolarmente strategica: lo sviluppo del pensiero divergente2.

Detto in maniera semplice, si tratta di un approccio ai problemi che esplora più soluzioni possibili invece che cercare la soluzione corretta, spesso ponendo molte domande circa l’inquadramento del problema stesso. È necessariamente un modo di processare le informazioni non lineare, di tipo non deduttivo (che normalmente segue un set di passaggi logici strutturato per arrivare a una unica soluzione possibile), che allarga il campo delle possibilità e prevede di esercitare molto non solo la capacità d’immaginare più prospettive ma anche di ricondurre poi questa moltiplicazione di elementi presi in esame a una scelta ponderata.

Il pensiero divergente è naturalmente collegato alla creatività perché questo allenamento a prendere in carico più punti di vista spesso porta a proposte innovative, ma a differenza di essa non prevede talenti particolari e fuori dall’ordinario: chiunque può esercitarlo, solo qualcuno raggiungerà la cosiddetta creatività. Finora gli studi hanno dimostrato che il pensiero divergente era presente in persone dai tratti personali contraddistinti da propensione all’anticonformismo, spiccata curiosità, disposizione ad assumersi rischi e perseveranza nel percorrere strade inusitate. Ma hanno anche evidenziato come esso si possa sviluppare attraverso un’educazione che tenga conto degli stili cognitivi ed emotivi di tutte e tutti, adottando più linguaggi e codici, abituando a passare le bambine e i bambini da uno all’altro e a immedesimarsi con diversi punti di vista.

 

Pensiero divergente o laterale: alcune strategie

Alcune tecniche base possono essere utili per stimolare la ricerca: lavorare creando liste di domande rispetto a una questione, provare attraverso giochi di ruolo ad assumere atteggiamenti diversi da quelli che sarebbero più spontanei per noi stessi/e, usare la tempesta di idee o brainstorming per raccogliere parole chiave e tutte le possibili sfumature e suggestioni che possano venire in mente, evitando di censurare anche quelle che sembrano più “sciocche” o fuori luogo, giochi di attivazione emotiva ecc. Tutte cose che, occorre sottolinearlo, normalmente si fanno in gruppo: una delle caratteristiche del pensiero divergente è infatti che si crea soprattutto attraverso l’abitudine al confronto interpersonale, e più il gruppo è eterogeneo, più le possibilità di allargare le nostre competenze diventano forti. Gli apporti che vengono dall’arte e da tutte le forme espressive sono preziosi. Questa assunzione di fondo ha fatto sì che nella programmazione del percorso formativo svolto nei nidi siano stati inseriti moltissimi momenti di lavoro sia ludico che di confronto concettuale attivo, con attività-stimolo rispetto al tema trattato nell’incontro. Per esempio, sono stati fatti brainstorming sui cambiamenti delle famiglie negli ultimi anni; giochi di “etichettatura” per lavorare successivamente su stereotipi e pregiudizi; attività per provare in maniera esperienziale come si agiscono le barriere della comunicazione, e come ci si sente quando, cercando di esprimersi, qualcuno/a le erge davanti a noi; simulazioni di conflitti e possibile gestione di essi, tramite negoziazione (non solo verbale) e così via. Molti studi hanno dimostrato che il gioco infantile è alla base di questo importante apprendimento. La richiesta di fondo è: allenati a pensare fuori dai soliti schemi.

Per questo, abbiamo usato giochi di movimento, disegni, il richiamo a coreografie “belle”, armoniose, cercando di ricondurre i dati esperienziali personali e di gruppo a un’analisi concettuale successiva.

Talvolta il pensiero divergente è anche chiamato pensiero laterale: secondo lo psicologo Edward De Bono (2001) esso serve per superare gli schemi di pensiero usuali stimolando la ricerca di nuove prospettive e consiste principalmente nel generare un ampio ventaglio di modi “non consueti” per affrontare una situazione. Uno slogan: “Pensare fuori dalla scatola!”3.

Questo approccio è ben compreso dalle aziende che puntano sull’innovazione: i gruppi di lavoro sono formati cercando di mantenere un alto grado di eterogeneità, gli ambienti sono organizzati per stimolare a più livelli le singole persone e i team, le sessioni di lavoro ammettono che siano presentate idee anche esagerate o non realizzabili, ma che possono aiutare a tracciare percorsi mai pensati in precedenza, e così via.

 

Allenarsi alla complessità

Il lavoro relazionale con le famiglie, necessario per svolgere il proprio lavoro di educatrici/educatori e personale dei nidi in questo panorama così complesso, ci ha fatto ritenere che l’approccio, le modalità e alcune tecniche del pensiero divergente fossero un buon modo per allenarci ai tanti punti di vista, ai diversi quadri di riferimento, alla pluralità di concezioni pedagogiche che mamme e babbi, nonne e nonni hanno in mente rispetto alle piccole e ai piccoli, e rispetto al ruolo che i servizi educativi devono e possono avere. Rinegoziare significati e valori, credi pedagogici e modalità educativo-relazionali prevede di cogliere e comprendere le problematiche, i punti interrogativi e le certezze che il nostro interlocutore ha (e quelli che abbiamo noi stesse/i), decodificarle e imparare a comunicare efficacemente la nostra posizione per aprire al confronto e non per chiudere il dialogo o imporre una visione unica e non più discutibile. Questa postura di flessibilità epistemologica non richiede di abbandonare i nostri punti di riferimento, richiede però di renderli più trasparenti a noi stesse/i e alle altre/agli altri e, in alcuni casi, di trasformarli in base ai nuovi contesti e alle nuove esigenze, prendendo atto che i processi di adattamento consapevole sono reciproci e necessitano di un lavoro di analisi e riflessività continuo, non “di routine”: un pensare fuori dalla scatola usando la propria intelligenza, le proprie emozioni e tanta, tanta, tanta immaginazione.

 

1 www.progettoarcobaleno.it.

2 L’espressione “Pensiero Divergente” è stata introdotta nel 1950 da J.P. Guilford col suo articolo “Creativity” nella rivista American Psychologist in opposizione al concetto di “pensiero convergente”, ovvero quel tipo di pensiero che permette di arrivare a una sola soluzione efficace seguendo un ragionamento basato su passaggi deduttivi tipici della logica classica.

3 Bruner sosteneva che nell’ambito dell’educazione tendiamo a ricompensare solo le risposte “giuste” e a penalizzare quelle “sbagliate”, ovvero non conformi a uno standard consolidato. Crescendo, questo impedisce agli adulti, memori della lezione appresa, di cercare soluzioni alternative rispetto a strade già tracciate e, per questo, ritenute più sicure. Spesso però sono anche “soluzioni” non risolutive, dicendolo con un bisticcio di parole, poiché si applicano a nuovi problemi.

 

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