Aggressività, gioco e sport

Aggressività, gioco e sport

Intervista all'autore: Andrea Ceciliani

Il contrasto al disagio e alla violenza giovanile richiede l’applicazione di misure repressive ma, prima di ogni altra cosa, è indispensabile lavorare sulla prevenzione. Parola che, in questo ambito, è legata indissolubilmente all’educazione alla gestione dell’aggressività, obiettivo che può essere raggiunto (anche) attraverso il gioco e lo sport. Abbiamo a chiesto ad Andrea Ceciliani, curatore del volume “Aggressività, gioco e sport”, perché è importante insegnare ai bambini e alle bambine a giocare alla lotta.

 

L’aggressività è (almeno in parte) un dato biologico, che viene indirizzato e governato attraverso costrutti sociali come il gioco e lo sport. Quali possono essere i rischi per chi cresce in una società, come la nostra, che fatica sempre di più a far giocare all’aperto e in modo libero, e in cui lo sport è spesso coinvolto in dinamiche di polarizzazione e violenza?

L’aggressività è in parte dato biologico ma è fortemente condizionata, dopo la nascita, dai vissuti della persona e, in tal senso, dal contesto più o meno affettivo in cui si cresce e si matura. L’aggressività deve essere mediata, affinché non si traduca in violenza, attraverso la relazione con gli altri. Proprio da tale relazione, iniziando dalla mediazione dei conflitti, in età infantile, si giunge all’autodeterminazione e all’autocontrollo. Il gioco e lo sport sono sempre state potenti cornici di relazione, caratterizzate anche dall’aspetto agonistico-competitivo, che contribuiscono allo sviluppo delle competenze sociali attraverso situazioni controllabili, prive di reali conseguenze per la vita, protette da un alveo simbolico dove il combattimento, la sfida, la ricerca di supremazia, si realizzano in forma ludica, temporanea, staccata dalla realtà ma a essa ispirata.

Il gioco, in altre parole, consente di esprimere la propria aggressività in un contesto che può accoglierla e perdonarla, può mediarla e attenuarla, in una cornice di accordi e regole che, nel tempo, ne consentono il controllo e l’uso adeguato nel comportamento agonistico. Il fatto che le attuali generazioni infantili non abbiano più la possibilità di praticare il gioco libero all’aperto, è una lacuna non priva di conseguenze nella vita reale: incremento del bullismo, nascita del bullismo cibernetico, diffusione delle baby-gang in diverse città italiane. È bene riflettere su questi dati, spesso sottostimati perché apparentemente sotto controllo o spesso giustificati con la tipica frase populista: “È sempre stato così, nulla è cambiato”. Non è così, soprattutto in educazione dove i risultati del lavoro formativo arrivano nel lungo periodo ed emergono all’improvviso, ad anni di distanza, sorprendendo tutti. Le nostre comunità devono ricreare spazi e tempi per il gioco libero, ivi compreso il gioco di lotta e confronto, per consentire a bambini/e di evolvere, in condizioni appropriate e adeguate, nelle loro competenze sociali e civiche.

 

I comportamenti aggressivi nella prima infanzia possono essere dei predittori per condotte antisociali con il passare dell’età. Ci sono segnali particolari, nel gioco e nelle relazioni, a cui devono prestare attenzione la scuola e gli educatori?

Vi sono diverse reazioni che possono essere rilevate da una attenta osservazione del gioco infantile e che possono dare origine a delusioni, se non frustrazioni vere e proprie, che accumulandosi non aiutano i bambini a esprimere il proprio sé e a maturare un positivo senso di autoefficacia nel gioco. A tal proposito un elemento generale, da osservare, si riferisce ai bambini che “giocano bene” rispetto a quelli che “giocano male”, questi ultimi infatti assumono comportamenti chiaramente intellegibili: si arrabbiano spesso con gli altri compagni di gioco, piangono quasi sempre se non vincono, spesso abbandonano il gioco e poi vi rientrano, si isolano dagli altri dopo il gioco. Questi comportamenti sono sintono di una attenzione al risultato del gioco più che non al processo del giocare e indicano il bisogno di emergere sugli altri piuttosto che di divertirsi con gli altri. Tale bisogno è sintomo di un disagio che cerca riscatto.

Altri indicatori sono meno evidenti per un osservatore inesperto, ma denotano la presenza di un disagio in atto che può aumentare i livelli di insoddisfazione e di frustrazione: la paura di sbagliare, porsi in situazioni o posizioni marginali rispetto al gioco, evitare di prendere decisioni anche quando si dovrebbe, soggiacere sempre alle decisioni degli altri. In tutti i comportamenti richiamati si può leggere la presenza di un disagio che, provenendo dalla vita reale, si ripercuote anche nel gioco. In tal caso è necessario confrontarsi con la famiglia e cercare di comprendere i reali problemi che sostengono il disagio, la frustrazione e il pericolo che si accumuli risentimento e rabbia verso il mondo e la vita.

 

Nell’adolescenza l’aggressività e la violenza possono essere espressione di un disagio che, muovendo dalla negazione dell’alterità e del senso del limite, può sfociare in atteggiamenti pericolosi per sé e gli altri. È ancora possibile, in un periodo così complicato come l’adolescenza, educare l’aggressività? E se sì, quali sono le strategie più efficaci per farlo?

L’educazione dell’aggressività, nell’adolescenza, deve utilizzare lo sport come forma di gioco evoluta e più impegnativa, per aiutare l’indirizzo di senso che il giovane cerca di dare alla propria vita. Le strategie sono riconducibili a situazioni in cui si debbano assumere responsabilità, si debba dare senso al proprio agire, non solo per il proprio benessere o tornaconto, ma anche per quello di tutti gli altri. Lo sport può rappresentare una palestra di allenamento alla vita in cui il proprio contributo è importante per il risultato finale di tutto il gruppo, nel caso delle discipline individuali, o di tutta la squadra, nel caso dei giochi sportivi. In tali ambiti, infatti, allenarsi e gareggiare insieme, assumere il proprio ruolo di gioco, aiutare e sostenere gli altri, può dare senso all’agire di tutti i partecipanti, ciascuno per le proprie disponibilità e propensioni. Impegno, assunzione di responsabilità, altruismo, condivisione dell’esperienza comunitaria, sia negli allenamenti sia nella gara, rappresentano esperienze che, seppure vissute nella cornice particolare del momento sportivo, forniscono solide basi comportamentali trasferibili nella vita quotidiana (life skills). È indubbia la necessità, con gli adolescenti, di un continuo dialogo, di un costante loro coinvolgimento nelle attività svolte, nelle scelte da operare, nella distribuzione di compiti e responsabilità che elicitino la sensazione di utilità e, con essa, la percezione di autoefficacia, di autostima. Lo sport, con gli adolescenti, prima ancora dell’aspetto prestativo, che pure diviene determinante per chi pratica agonismo di alto livello, deve curare l’aspetto relazionale, affettivo, sociale, comunitario. L’aspetto tecnico e tattico lo diamo per scontato, se lo sport si fermasse solo a questi elementi non risponderebbe al ruolo educativo che può veicolare. Nello sport bisogna saper curare anche la persona, ogni singola persona e non una biomacchina prestativa. Le recenti problematiche relative alla squadra nazionale di Ginnastica Ritmica la dicono lunga sul rischio di scarsa considerazione della persona nello sport agonistico.

 

L’aggressività, le sue manifestazioni e la sua gestione hanno una marcata caratterizzazione di genere. Quali sono le principali differenze tra bambini e bambine, specie nei giochi e nello sport?

L’aggressività, rispetto al genere, mostra differenze solo nella sua espressione che, per motivi culturali, vede il maschio orientato verso l’aggressività diretta e la femmina verso quella  indiretta. Se guardiamo l’espressione sportiva, a parte gli stereotipi culturali che vedono le femmine più portate per la danza e i maschi più per gli sport di duro confronto, non si notano differenze comportamentali in una partita di calcio, di rugby, basket o pallanuoto, tra una gara femminile o maschile. L’unica differenza, stavolta riferita allo status biologico, è riferibile solo al livello prestativo, non a quello comportamentale. Il gioco e lo sport, in ultima analisi, sembrano scardinare parte degli stereotipi che, nel tempo, hanno relegato maschi e femmine a ruoli diversi. Su questi stereotipi di aggressività più diretta rispetto a quella indiretta, si può trovare una delle chiavi di lettura che spiegano il grande e preoccupante numero di femminicidi nella nostra società.

 

Spesso nel libro si parla di controllo intenzionale dell’aggressività. Sta qui, nel gioco e nello sport, la chiave per imparare a gestire le pulsioni istintuali più distruttive?

Il gioco e lo sport, come già affermato, rappresentano cornici diverse dalla realtà ma a essa fortemente connesse. Le regole implicite ed esplicite, nel gioco come nella gara sportiva, consentono di applicare l’aggressività come espressione dell’agonismo, cioè del massimo impegno profuso per confrontarsi con gli altri nel tentativo di superarli e risultare vincitori. Tale applicazione dell’aggressività, limitata dalle regole, deve essere autocontrollata, intenzionalmente orientata e, in certi momenti, inibita per non incorrere in sanzioni più o meno gravi, fino all’espulsione dal gioco o alla sospensione dalla partecipazione alle gare. Conseguenze non gravi e temporanee che consentono ai trasgressori di potersi applicare nuovamente alla pratica sportiva senza conseguenze durevoli o limitanti.

In altri termini, diciamo che, nella cornice del gioco e dello sport, esiste un confine coercitivo che non è possibile superare, all’interno del quale, però, è possibile esprimere l’aggressività nel comportamento agonistico-competitivo e, dunque, intenzionalmente controllato, dosato e applicato nel rispetto di sé e degli altri partecipanti.

 

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